Luciano Meddi
Anagni 14
marzo 1998
Il
ruolo del presbitero-parroco nella chiesa inizia la sua progressiva definizione
con l’inizio della chiesa post-constantiniana. La questione della funzione
pastorale del presbitero, infatti, nasce con il superamento della chiesa
apostolica ed episcopale dei primi secoli della chiesa[1].
Si può ricordare che i preti romani agli inizi del 400 di domenica celebravano
la messa nelle chiese titolari e che presto sorsero le paroecias nelle campagne e le pievi
battesimali. Ma è indubbio che questa operazione fu realizzata per
rafforzare il ruolo dei vescovi e non quello delle chiese locali[2] e che portò proprio all’allargamento delle
diocesi più che alla diffusione di ruoli intermedi rispetto al vescovo come la
tradizione dell’Italia del sud aveva diffuso con la figura del corepiscopo. Il presbitero, quindi, non
aveva autorità e attività propria ma delegata.
La stessa Regula Pastoralis[3]
era riferita al vescovo.
In
secondo luogo va ricordato che in tutto l’alto medioevo era difficile trovare
clero secolare preparato per la funzione pastorale che non si limitasse al solo
celebrare i sacramenti. Molte volte la pastorale era eseguita ed “aveva
successo” più per l’imposizione dell’imperatore o del feudatario che per
l’azione dei presbiteri. Da qui l’affermarsi dell’azione pastorale dei Monasteri contro la volontà del clero
secolare che vi vedeva un pericolo per la propria autorità e sicurezza
economica. Questo si protrasse in forme diverse anche dopo il Mille. Si
potrebbe, anzi dire, che non è venuto mai meno.
Furono
i concili lateranensi[4] a definire il ruolo e il compito del parroco
nella propria chiesa. Il Lateranense I (1123) proibì la cura animarum ai regolari (can 16) e il Lateranense III (1179) mise
ordine sulla organizzazione della parrocchia soprattutto richiedendo una età
minima (24 anni), la stabilità e il divieto di cumulo dei benefici. Finalmente
il Lateranense IV[5]
(1225) diede alla chiesa una organizzazione più precisa : promosse i
predicatori nelle cattedrali, le scuole cattedrali, le diocesi plurilingue,
celebrazioni annuali dei sinodi e correzione del clero; la formazione e stile
di vita del clero. Il parroco aveva l’obbligo della conservazione dell'Eucarestia e del Crisma,
mentre si affermava il principio del rapporto
giuridico tra battezzato e parrocchia territoriale : obbligo alla comunione pasquale e confessione nella
propria parrocchia, obbligo di chiamare il sacerdote per i moribondi;
matrimonio e sepoltura gratuiti; istituzione delle pubblicazioni
matrimoniali. Questa impostazione rimase
identica fino a Trento e anche oltre. Essa si incentrava sulla funzione
sacerdotale-sacramentale del parroco espressa per di più in termini di diritti
(di stola) concessi dal vescovo e sostenuta dal dovere di richiesta fatto da
parte dei fedeli. La questione era tanto evidente che non venne risolto il
problema della predicazione e della formazione dei laici che rimasero in
pratica svolte dai religiosi nonostante la
istituzione dei “chierici adatti per esercitare il salutare ministero
della santa predicazione” anche tra il clero secolare (costituzione 10, pp. 234-235).
Trento (Sessione
V - 1546 e Sessione VI - 1563)
operò un rilancio delle istituzione della chiesa secolare proponendo la figura
del “buon curato”. Tale progetto si
realizzò con le istituzioni dei seminari per la formazione, con la diffusione
della idealità e identità della figura del sacerdote in cura d’anime centrata sull’identificazione con il Buon Pastore. Così facendo venne ancorata ulteriormente la
figura e l’azione del parroco sulla sua “capacità” sacramentale accentuando la
dipendenza della comunità dalla sua azione. Ormai egli è davanti al popolo che
in tutto dipende da lui. Non sfugge a nessuno l’impressione di controllo che il parroco si trova ad
esercitare sulla sua parrocchia mitigata appena dalla paternità per la quale il parroco diventerà il centro della vita
quotidiana dei nostri paesi[6].
Non venne risolto il problema della predicazione
ovvero la dimensione missionaria della comunità che rimase marginale
nell’azione del parroco e di fatto nuovamente affidata agli ordini religiosi.
Questa impostazione subì qualche modifica con le iniziative del Muratori, di S.
Alfonso Maria de’ Liguori nella seconda metà del ‘700 nella direzione, appunto,
del parroco che istruisce e predica
ma tali proposte non furono così forti da sradicare il rapporto tra presbitero
e potestà santificante.
Rapidi
accenni anche per la ricostruzione dell’idea di presbitero pastore nella
attualità ecclesiale che si può riassume nella maggiore autonomia e identità
del ruolo pastorale rispetto al proprio vescovo.
La cura animarum viene definita come un
compito che spetta ai presbiteri-parroci come “a pastori” ; essa è
caratterizzata dai tria munera, deve
possedere la carica missionaria nei confronti della propria comunità ed è
aiutata dalla scelta di vita sacerdotale comunitaria e collaborativa. Si deve
mettere in evidenza che CD definisce questa competenza “propria” lasciando
intendere che pur mantenendo forte il legame con in vescovo il ministero del
parroco non può essere più facilmente pensato come subordinato o vicario di
quello del vescovo. Questa affermazione non è seriamente messa in discussione
da SC 42 e LG 28b.
L’attività
del parroco è incentrata sulla funzione
di insegnare e di santificare. Non si parla direttamente di esercizio della
carità e di animazione della comunità. L’azione del parroco, per questo,
necessita di una continua conoscenza del suo popolo. Mi sembra in continuità
con l’idea di Trento : progressivamente viene riconosciuta al parroco la
stessa importanza del vescovo ma sotto la sua autorità ; parroco per il popolo e popolo per il parroco.
L’impressione
lasciata da CD deve essere mitigata da altri documenti dove la vocazione dei
laici all’apostolato viene affermata secondo l’ormai conosciuta dottrina della
“comune vocazione e missione diversamente ordinata” normalmente intesa come
distinzione tra guida della comunità e santificazione per il clero e “capacità
di ordinare delle cose del mondo in ordine alla redenzione” da parte dei laici.
Queste affermazioni vengono condivise anche da altri testi conciliari come AD e
GS e rappresentano la base dell’attuale dibattito sul ruolo pastorale del
presbitero : il suo specifico nei confronti di una chiesa che, essendo
tutta ministeriale (LG 10-12), non trova facile dire cosa debba fare l’uno o
l’altro.
Il
codice[7]
del 1983 recepisce queste problematiche usando un linguaggio comprensivo :
da una parte si definisce l’ufficio di pastore
in quanto parroco proprio, fino a
stabilire quanto lui solo può fare (cann. 515 e 530) e il ruolo di coordinatore
di attività ministeriali (cann. 528-529). Conferma quindi l’accentuazione di autonomia già espressa da CD 30. In
riferimento alla descrizione delle finalità della cura pastorale la riflessione
sulla sua natura dovrà essere ancora approfondita. Infatti materialmente si
dice del parroco quanto viene detto anche dei laici (can 204 §1) in virtù del
proprio battesimo (meglio sarebbe Iniziazione Cristiana). Si dovrà quindi
sviluppare il concetto di servizio
alla responsabilità dell’intera comunità. Il compito specifico è l’abilitazione
dell’intera comunità e il mantenimento della comunione ecclesiale.
Non
sfugge infatti l’impressione che i laici siano pensati eccessivamente come suoi
collaboratori per il fatto che la
missione ecclesiale è “sua”. La natura teologica individuata dallo stretto
legame tra parroco e vescovo diocesano (carattere ecclesiale) e l’eccessivo
riferimento a Cristo capo (carattere cristologico) espresso attraverso il
particolare legame sacramentale, rischiano di far intendere la sua funzione
essenziale come quella di “rendere presente il vescovo”.
Pastores
Dabo Vobis (1992 - EV13 1154 ss) dedica il capitolo II alla missione del
sacerdozio ministeriale che è radicata nella relazione fondamentale con Cristo
capo e pastore (n.13) tanto che è a servizio della chiesa e del mondo (n. 16)
proprio in quanto lo rappresenta. Si rafforza, quindi, il legame
vescovo-presbitero nella chiesa locale che tuttavia significa per la chiesa locale. Ne deriva che il
parroco è pensato come appartenente soprattutto al presbiterio e al vescovo con
cui condivide la sollecitudine ecclesiale (n. 31-32) e che rimane estraneo alla
comunità dei fedeli perché non nasce da essa e non si riferisce alla sua
storia.
Il
recente Direttorio per il ministero e la
vita dei presbiteri (1994) non indica cose nuove : la carità pastorale
“deve essere una manifestazione della carità di Cristo” (n. 43) e si esercita
nella dimensione sacramentale. Si parla anche di guida della comunità presentata con i verbi : servire,
illuminare, custodire, correggere, perdonare, consolare, promuovere (n. 55).
Questa impostazione di distinzione come specifico dell’azione pastorale del presbitero è stata recentemente affermata dalla Istruzione su alcune questioni circa la collaborazione dei fedeli laici al ministero dei sacerdoti (1997 [8] molto preoccupata anche di distinguere la terminologia (art. 1 §1).
La natura del servizio pastorale del
presbitero-parroco è dunque vista all’interno della ecclesiologia del
vescovo ; ma si fa strada in modo incisivo il riferimento alla comunità e
quindi alla ecclesiologia (di comunione). In secondo luogo si nutre della
spiritualità del presbitero come Buon Pastore. Bisogna riconoscere che tale
impostazione dell’identità del servizio ministeriale nasce e mantiene intatta
la preoccupazione della centralità del vescovo più che dalla natura della
missione ecclesiale. E che tale preoccupazione non riesce ad andare oltre
l’impostazione del concilio di Sardica, come indicato, se non nella “cessione”
progressiva dell’autorità da parte del vescovo verso i collaboratori di cui non può fare a meno stante la
situazione di cristianità sociologica diffusa. In passato il segno di tale
“cessione” fu l’uso del fonte battesimale ; successivamente la strenua
difesa dell’amministrazione sacramentale riservata al parroco. Oggi sembra
essere la relativa autonomia della cura d’anime (termine prima riservato al
solo vescovo) ma sempre in dipendenza dalla sua autorità.
Non
sono assenti i riferimenti alla ecclesiologia di comunione ma riletti dentro
questa principale preoccupazione. E quindi sono ancora acerbi e poco amalgamati
con il tutto. Tanto da pensare ad una ecclesiologia incompiuta perché la
comunità non può assolutamente essere pensata solo come destinataria dell’azione pastorale del vescovo-presbiterio.
Ne
deriva una posizione ambigua del presbitero-parroco. Egli è rappresentante del
vescovo in una comunità e come tale
possiede la pienezza della cura pastorale per
la comunità. Ma d’altra parte egli deve coordinare differenti ministeri e
manifestazioni dello Spirito che sono della
comunità e precedenti il suo arrivo
in essa.
Questo
si rende evidente nell’analisi degli ambiti
di tale attività ministeriale che sono quelli tradizionalmente affermati :
derivano dai tria munera Christi. Il
carattere battesimale di tutti i fedeli precede l’azione del pastore della
comunità. Come il codice sembra indicare, la linea della demarcazione tra
parroco e comunità non potrà essere intesa primariamente in ciò che l’uno o
l’altro potrà fare ma nel termine di servizio
ad una competenza che riguarda tutti.
Questa impostazione mi sembra riprendere bene il NT e specialmente Ef cap. 4
(sviluppare il ministero di tutti i credenti) e in sintonia con molte
indicazioni e preoccupazioni dei documenti ecumenici[9]
D’altra
parte questa interpretazione della responsabilità non viene sufficientemente
descritta con la teologia dei tria munera,
mancando proprio il riferimento alla fraternità e alla vita della comunità. Una migliore impostazione potrebbe venire
dall’assunzione prioritaria della categoria missione
della comunità a cui servizio si pone il presbitero-parroco. Missione farà riferimento alla storia e
al territorio specifico della comunità stessa in cui il parroco si trova
inviato. Missione implica trasformazione della realtà in ordine al Regno di
Dio. Necessita di programmazione e discernimento comunitario secondo il criterio
della comunione ecclesiale e quindi l’apostolicità della vita comunitaria. Il
presbitero-parroco trova qui il suo specifico impegno e responsabilità. Questo
dovrà essere sottolineato anche in riferimento al can. 522 del CJC 1983 circa
la stabilità e movibilità dei parroci in Italia stabilita orientativamente in 9
anni.
Mi
sembra inoltre importante sottolineare questa impostazione in riferimento alla spiritualità e psicologia del ruolo di
presbitero-parroco. Non è infrequente la situazione di parroci che si sentono
in difficoltà nei confronti del loro ruolo e servizio. E questo non per
mancanza di spirito religioso piuttosto in riferimento alla teologia conciliare
della chiesa locale e il ruolo dei laici. Questo si manifesta come vero stress da ruolo. Il concetto teologico
di servizio colloca il
presbitero-parroco in un ruolo più definito : abilitare la comunità non
può significare sostituirsi ad essa o
sentirne eccessivamente la responsabilità.
Sul
versante dell’agire pastorale tale identità centrata sulla abilitazione della
comunità più che sulla responsabilità della salvezza eterna dei fedeli
affidati, si realizzerà nel passaggio dalla amministrazione
alla animazione della comunità[10].
Rimandando questa descrizione ad altro luogo, si dovrebbe analizzare l’agire
pastorale in termini di capacità :
capacità di generare comunità (o più esattamente nel nostro contesto di rigenerare), capacità di far crescere e
maturare ministerialità, capacità di orientamento nell’azione missionaria,
accompagnamento nella vita comunitaria in sintonia con la chiesa locale e universale.
Luciano MEDDI
[1] BO V., Storia della parrocchia. I secoli delle origini (sec. IV - V), Roma, ED, 1988 ; SENSI M., forme storiche della "cura animarum": un bilancio storiografico in CIOLA N. (a cura), La parrocchia in un'ecclesiologia di comunione, Bologna, EDB, 1995, 43-63.
[2] A questo proposito va ricordato il famoso concilio di Sardica, 341-343, quando il vescovo di Cordova, Osio, propose e fece accettare il principio della non indiscriminata creazione delle sedi per non svilire il nome e il prestigio del vescovo (ne vilescat nomen et auctoritas), can. 6 [Mansi III, 22ss.].
[3] LOVATO M.T.(a cura di), La regola pastorale, Roma, Città nuova editrice, 1995.
[4] BO V., Storia della parrocchia. Vol. III. Il travaglio della crescita (sec. XII - XIV), Roma, ED, 1991, cap. II.
[5]
ALBERIGO G. (a cura), Decisioni dei
concili ecumenici, Torino, UTET, 1978.
[6] Accentuato dall’obbligo della confessione e dall’istituzione degli Stati animarum
[7] Su questo aspetto cf. MOGAVERO D., Il parroco e i sacerdoti collaboratori in AA VV, Il Codice del Vaticano II. La parrocchia e le sue strutture, Bologna, EDB, 1987, 119-146 ; e il recente BORRAS A., La parrocchia. Diritto canonico e prospettive pastorali, Bologna, EDB, 1997.
[8] testo in Vatican.va
[9] Una indicazione : Documento di Lima (1982), Battesimo, Eucarestia e Ministero.
[10] Una rilettura riferita alla dimensione evangelizzatrice in MEDDI L., Presbitero e catechesi parrocchiale in Via, Verità e Vita 45,1996,157, 70-76.